{rokbox title=| :: |}images/franceschini2.jpg{/rokbox}Franceschini ancora una volta a Cortona. Stavolta, la seconda, non più da segretario del PD ma da leader di “Area democratica”, la composita minoranza interna al PD che non vuole sentirsi chiamare corrente ma molto a quella assomiglia, con tanto di nuova testata web personale e posizioni a tratti piuttosto distanti da quelle del Segretario Bersani. Insomma, se qualcuno cercava la conferma che le divergenze non sono solo nel PdL, ma anche nel PD, oggi ce l’ha avuta. Non c’era Veltroni, che ancora ha una forte influenza (molti i “nostalgici” della gestione 2007-2008 che ricordano come il PD, pur perdendo alle politiche, toccò il suo massimo), ma pare che ci sarà domani. C’era Fassino, c’era la Serracchiani, c’erano tanti altri (Fioroni, Gentiloni, Marini…) Stavolta pare che Franceschini, rispetto al passato (nostra impressione del tutto discutibile), si sia un po’ schiarito le idee.
Molto più nette le posizioni, infatti, rispetto al periodo della campagna per le primarie e più forti i messaggi ai bersaniani, con la reiterata richiesta di “non tornare indietro”, “non perdere lo slancio iniziale”, “non perdere lo spirito originario del PD”, “non aver paura a diventare una forza politica moderna”, assumere atteggiamenti chiari e coerenti, anche sul fronte-alleanze. “Serve un partito con dei Si e dei No precisi” dice Franceschini, e su questo quasi alla fine dell’intervento arriva una sorpresa che probabilmente interesserà molto anche la realtà aretina nel quale la battaglia referendaria sull’acqua è molto viva. “Si all’acqua pubblica, sì al referendum”. Una frase che pare uscita quasi inavvertitamente, sullo slancio emotivo, ma che di certo non è frutto del caso. Basta andarsi a guardare la posizione, su questo tema, recentamente assunta dal PD e da Bersani (“Referendum non sufficiente, via con la proposta di legge”). Le due proposte si somigliano molto poco e proprio su questo tema, alquanto cruciale, potrebbe arrivare qualche sorpresa.
Per il resto s’è sentito un “No al nucleare”, e ce lo appuntiamo a futura memoria, insieme a 5 proposte per le riforme istituzionali, l’ultima delle quali parla di maggioritario a turno unico, con l’intenzione di rafforzare il bipolarismo. Beh, anche questa, oltre alla posizione sull’acqua, è una notizia.
TESTO COMPLETO DELL’INTERVENTO DI DARIO FRANCESCHINI A CORTONA
1
Pochi giorni fa Ulrich Beck ha ricordato a tutti noi la regola
fondamentale della società mondiale del rischio: non lasciare mai
che un rischio globale passi senza sfruttarlo, poiché si tratta
sempre di un’occasione di fare qualcosa di grande.
Beck parlava della Germania di fronte alla crisi europea. Ma
quella regola vale più in generale.
Del resto, quante volte ci siamo detti, che dopo la grande crisi
globale di questo fine decennio, nulla sarebbe stato più come
prima?
Quante volte abbiamo ripetuto che saremmo usciti da questa
tempesta profondamente cambiati.
L’economia, ma anche i modelli culturali, gli stili di vita, il modo
di consumare e di rapportarci all’ambiente. Le relazioni
sovranazionali e quelle tra comunità.
Insomma, ci siamo detti certi che quello che sarebbe uscito dalla
grande crisi sarebbe stato un mondo nuovo.
Abbiamo davvero pensato alla crisi come ad una straordinaria
opportunità di cambiamento.
2
Questa speranza era autorizzata e resa più concreta dall’apertura di
una nuova stagione americana, con l’elezione di Obama alla Casa
Bianca.
Dobbiamo chiederci, due anni dopo, cosa sia rimasto di quella
speranza.
Le cose purtroppo non sono andate come speravamo ma c’è
ancora tempo per trasformare i rischi in opportunità, se la politica
saprà rischiare e guardare lontano.
L’opposto di quello che purtroppo sembra stia avvenendo in
questo secondo tempo della crisi globale.
E’ legittimo farsi alcune domande.
Possono ancora riuscire i governi a dare una risposta a quella forte
domanda di istituzioni sovranazionali capaci di dettare regole alla
globalizzazione?
Ci si può rifugiare dentro i confini politici, in un mondo in cui non
ci sono più i confini economici?
E’ possibile che alcune agenzie private americane di rating, con le
loro valutazioni cambino il futuro di intere economie e di milioni
di persone? E che questa avvenga perchè colmano un vuoto di
istituzioni internazionali.?
3
Basti riflettere sulla crisi europea, sul vuoto di una vera
dimensione sovranazionale, pagato di nuovo in questi giorni.
Basti pensare alla drammatica lentezza e incertezza con cui
l’Unione Europea ha affrontato la crisi della Grecia, all’assenza di
leader in grado di mettere a rischio anche la propria leadership in
nome di un obiettivo nobile e lontano.
Purtroppo, ancora una volta la destra è apparsa più veloce e
flessibile nel rispondere al cambio di fase.
Era già accaduto negli anni Ottanta e Novanta, quando il pensiero
neo-conservatore e ultraliberista, fondato sul mito di una crescita
infinita finanziata dal debito, ha dominato quella stagione, segnata
dal predominio dell’economia sulla politica, dalla competizione
sui mercati sempre più aggressiva, fino a travolgere limiti e regole.
Sono stati, non a caso anche nel linguaggio, gli anni della
deregulation.
La destra, dobbiamo riconoscerlo, ha saputo leggere e interpretare
meglio di noi quella fase della modernità.
4
Ha messo in campo un modello culturale che in un tempo postideologico,
segnato dalla crisi dei grandi soggetti collettivi a forte
identità, come partiti e sindacati, ha puntato tutto sulla
dimensione individuale, a scapito della coesione sociale e della
solidarietà.
La crisi globale ha messo in discussione molti degli assunti su cui
si reggeva quella ipotesi. Ma il camaleonte è stato pronto a
cambiare colore.
In un tempo che resta segnato dal conflitto e dominato da
insicurezza e paura del futuro globalizzato, la destra ha trovato
una sua nuova versione, rassicurante e difensiva, dentro gli stati e
degli stati nel mondo globalizzato.
Offre protezione contro le paure del nostro tempo. Rinuncia a
trasformarle in opportunità, rinuncia al ruolo della politica, che
deve essere sempre quello di guidare i grandi cambiamenti, non di
demonizzarli o sfuggirli per raccogliere consenso.
Ma il consenso, cinicamente, purtroppo lo incassa, e i progressisti
invece non lo incasseremo mai se non proveranno a sfidare la
destra sui valori, smettendo di inseguirla soltanto.
5
E anche la destra italiana si è andata riorganizzando su quella
nuova versione rassicurante.
Dal berlusconismo eticamente anarchico alla ristrutturazione
tremontian-leghista, che rielabora la tradizione in salsa padana e
costruisce una rete di protezione fatta di chiusure e conservazione.
In tempo di crisi non c’è spazio per i buoni sentimenti: ognuno sia
padrone a casa sua.
Il messaggio è forte, molto più del tanto celebrato radicamento
leghista.
E infatti la Lega vince perché è capace di mobilitare gli elettori
attorno a parole d’ordine chiare ed efficaci anche là dove non è
presente con una sua organizzazione territoriale.
L’avanzata in Emilia Romagna, in Toscana, e perfino nelle
Marche e in alcune zone del Lazio ha questo segno: la forza
brutale con cui si sostituiscono gli interessi ai valori, le paure alle
speranze.
6
Questa trasformazione del profilo dominante della destra produce
una frattura profonda.
Molto più profonda di quanto non abbiamo finora capito.
In questo senso lo scontro in atto nel Pdl non deve essere
sottovalutato.
Non è soltanto una lotta di potere tra personalità ormai
incompatibili. Vengono al pettine nodi intricati: l’unità nazionale,
il tema di una lealtà costituzionale faticosamente conquistata
nell’allontanamento dalle radici post-fasciste, l’impossibilità di
ridurre la vita democratica di un partito ai diktat di un comandante
in capo.
Gianfranco Fini pone questioni molto serie, alcune delle quali
riguardano la sua storia politica e la sua credibilità personale.
Altre la qualità e il futuro della nostra democrazia.
Per questo trovo stucchevole allungare la discussione sul come
questo terremoto in atto a destra ci riguardi.
7
Perché è ovvio che non possiamo essere indifferenti o
disinteressati.
Ma dovrebbe essere altrettanto ovvio che il nostro interesse non si
misura sulla possibilità di fare di Fini un alleato.
Fini è e resterà un nostro avversario, ma assomiglia a quella destra
costituzionale e europea di cui il paese avrebbe bisogno.
E lo aspetta un cammino difficile, perché il berlusconismo ha
messo radici profonde in questi vent’anni e come tutti i fenomeni
che hanno dentro pulsioni autoritarie, diventano più pericolosi nel
momento del declino, non tollerano i dissensi.
Lo spettacolo deprimente di questi giorni, il degrado dei
comportamenti di pezzi così rilevanti della classe dirigente del
governo e della destra, sono i sintomi di un sistema di potere che
sta crollando, travolto dal proprio sentimento di immunità e
onnipotenza.
Ma, proprio per questo, le settimane e i mesi che ci aspettano
saranno carichi di rischi e di tensioni.
Perché i colpi di coda finali sono sempre i più pericolosi, e noi
dobbiamo impedire che vadano a segno.
8
Mi viene da sorridere quando ricordo le accuse che mi hanno fatto
da segretario, che ci hanno fatto, anche dentro il partito, di troppo
antibelursconismo.
Difendere lo stato di diritto, il parlamento, la costituzione, i
principi di legalità, le intercettazioni come strumento per
contrastare il crimine, difendere i valori più sani della società
italiana non è antiberlusconismo: è il primo dovere del partito
democratico, il debito che noi abbiamo nei confronti delle
generazioni che ci hanno preceduto, quelle che ci hanno
consegnato diritti e libertà da custodire, rinnovare e tramandare
alle generazioni che verranno dopo di noi.
Adesso che quella stucchevole accusa è stata seppellita dal
periodico riemergere della violenza verbale e istituzionale di
Berlusconi, possiamo tutto, spero finalmente tutti, riconoscere che
preparare l’alternativa significa, allo stesso tempo, prepararsi sui
contenuti riformisti per tornare a guidare il paese e anche
contrastare con durezza questa destra.
Ogni giorno, non una settimana sì e una no a seconda dei sorrisi e
degli ammiccamenti ricevuti.
Difendere la democrazia e cambiare profondamente il paese.
9
La prima cosa è una condizione per poter realizzare la seconda,
per poter portare avanti la missione attorno a cui è nato il Partito
Democratico: abbattere barriere, paure, immobilismi, prudenze di
un paese bloccato, vecchio, impaurito e cambiarlo profondamente.
Solo una ragione così forte ed esigente può sorreggere
un’ambizione così alta, quella che ci ha spinto a superare vecchie
divisioni e antiche contrapposizioni per farci nascere.
Il Partito Democratico o mantiene questa sua vocazione, fatta di
coraggio e innovazione, o lentamente si spegne.
I partiti che ci siamo lasciati consapevolmente alle spalle,
potevano stare assieme per la forza dell’organizzazione o per
l’orgoglio di una storia comune, di una identità forte.
A un partito giovane e plurale, nato in una società senza le
ideologie del 900, queste cose non possono più bastare per stare
insieme.
10
Solo una missione ambiziosa e coraggiosa di cambiamento può
farlo vivere.
Per questo non dobbiamo dimenticare mai di essere un partito nato
per avere dentro le speranze e le attese della società italiana nel
suo complesso, senza antichi ed esclusivi blocchi sociali di
riferimento, senza delegare a nessuno la rappresentanza di
interessi, ceti o segmenti elettorali, verso il centro o verso la
sinistra.
Un partito nel quale questa pluralità non sia un insieme di recinti
piccoli e grandi, ma una costante ricerca di una nuova sintesi
culturale.
L’abbiamo detto tante volte durante le primarie e questa cosa
diventa ancora più importante adesso: dentro il partito mai una
identità deve prevalere sulle altre e le regole e lo statuto devono
impedire che questo avvenga.
Non c’è nulla di più pericoloso del senso di estraneità. Nulla di più
pericoloso che qualcuno non si senta più nella casa comune, ma
ospite in casa altrui.
11
Il partito non è fatto da qualcuno che ha vinto, che concede
generosamente il diritto di tribuna a chi ha perso.
Il partito è di tutti, di chi ha vinto e di chi ha perso insieme.
So che queste cose le pensano come noi Ignazio Marino e le
persone che l’hanno votato, e per questo lo ringrazio di essere qua
oggi, perché penso potremo fare molte cose insieme per il bene del
Pd.
Dunque un partito di tutti.
Per questo lo abbiamo costruito con la nostra gente, attraverso le
primarie, occasione unica per saldare la forza dei militanti e la
speranza e le attese dei nostri elettori.
E per questo, voglio dirlo con molta chiarezza anche alla vigilia di
possibili modifiche statutarie all’Assemblea del 21 e 22, le
primarie per scegliere il candidato della coalizione con cui ci
presenteremo alle prossime elezioni politiche, sono irrinunciabili.
12
Le primarie non sono uno strumento qualsiasi: sono un pezzo della
nostra ragione sociale, sono un modo di interpretare l’esigenza di
apertura alla società senza cui i partiti si rinchiudono e si
rinsecchiscono.
Per questo non si può affidare al veto di uno qualsiasi dei partiti di
una futura coalizione la possibilità o meno di fare le primarie: chi
vuole stare in coalizione con noi deve sapere che alle primarie per
la scelta del candidato comune noi non possiamo rinunciare e noi
non rinunceremo mai.
Abbiamo lavorato per far nascere questo Pd e abbiamo difeso
questa idea di partito nell’ultimo congresso.
Ci siamo impegnati nei territori, con le primarie e dopo, con la
nascita di Area democratica, per evitare il pigro ritorno a un
tranquillo passato.
Non è tempo di ordinaria amministrazione e di tranquillità.
Viviamo un tempo che richiede visione e coraggio.
13
Servono certo la macchina organizzativa, il partito solido, il
radicamento.
Ma non basterà tutto questo, non basteranno il partito solido o la
macchina organizzativa più potente possibile se non
trasmetteremo il senso di una missione di cambiamento del paese
per cui vale la pena spendersi, per cui vale la pena rischiare e
mettersi in gioco.
Purtroppo dalle elezioni politiche del 2008 in poi, da quando è
sembrato che si smarrisse la spinta propulsiva delle primarie del
25 ottobre e che inesorabilmente tornassero vizi e pigrizie,
abbiamo perso grande parte di quelle energie fresche ed entusiaste,
sia tra gli elettori che tra i militanti, che avevano creduto in un
partito nato per cambiare tutto
Ci sono state due ultime fiammate di ritorno: nella campagna
elettorale delle europee, aiutati dalla paura che tutto fosse
inesorabilmente perduto, e nel confronto delle ultime primarie.
Ma sempre dentro un misto di rassegnazione e disincanto che, se
non corretto presto, può diventare irreversibile.
14
E’ sbagliato dire che oggi nei nostri circoli è sempre più difficile
trovare persone che non provengano dai Ds o dalla Margherita?
Se siamo qui, se scommettiamo ancora sul progetto originario così
come lo abbiamo sognato, è perché siamo convinti che il Pd o è
davvero un partito nuovo, capace di andare oltre la semplice
addizione delle storie e delle identità precedenti, oppure è
destinato ad un rapido tramonto.
Nessuno si avvicinerà entusiasta se gli spieghiamo che il nostro
progetto per i prossimi anni è soltanto quello di sommare sigle e
partiti di ogni tipo per vincere le prossime elezioni.
Dopo il congresso non ci siamo sottratti alle nostre responsabilità.
Abbiamo accettato di partecipare a quella che è stata definita una
gestione plurale del partito, anche sulla base della consapevolezza
delle difficoltà di fronte a noi.
E soprattutto convinti della necessità di evitare ad un partito
ancora fragile quella malattia che ha rappresentato storicamente il
virus più pericoloso per il centrosinistra: l’autolesionismo.
15
Abbiamo tenuto questa posizione con la più limpida lealtà,
collaborando con la nuova segreteria, avanzando le nostre
osservazioni critiche nelle sedi proprie del partito, mai offrendo
spunti per polemiche esterne. Anche quando forse ce ne sarebbe
stata ragione.
Con la stessa lealtà oggi diciamo che è necessario un cambio di
passo non solo nella gestione, ma nel modo di essere del Pd.
Servono segni coraggiosi di rinnovamento dei gruppi dirigenti
dove le cose sono andate male.
Prendo un esempio per tutti: il partito della Calabria.
Un partito dilaniato, che ha visto ridotti di due terzi in propri voti
in due anni, già diviso nel nuovo Consiglio regionale, con
militanti in fuga. Penso che servirebbe commissariare subito il
partito regionale, con una personalità di grande autorevolezza,
capace di ricostruire investendo su energie nuove.
Non si può far finta che non sia successo nulla, non si possono
ignorare i segnali che i nostri elettori ci hanno dato in tutto il paese
alle ultime regionali.
16
Abbiamo perso le elezioni. Non perché per poche migliaia di voti
non abbiamo conquistato due regioni in bilico. Ma perché
abbiamo registrato una grave emorragia di consensi in termini
assoluti. Più di quattro milioni di voti dalle politiche del 2008, più
di un milione dalle europee dello scorso anno. Siamo al punto più
basso della nostra brevissima storia.
Non mettiamo questa grave sconfitta sul conto di nessuno, ma
chiediamo che l’analisi della sconfitta sia rigorosa e approfondita
e sgombri il campo ad alcuni equivoci pericolosi che hanno messo
a rischio il progetto.
Non ci sono scorciatoie per risalire la china.
L’alternativa sarà possibile solo attorno ad un Partito democratico
attrattivo e innovativo.
Non userei l’aggettivo sexy, che mi sembra più adatto alle
categorie berlusconiane.
17
Direi semplicemente un partito capace di entrare in sintonia con
quella parte del paese che crede nella possibilità di un futuro
diverso.
In sintonia con quei milioni di Nuovi Italiani che hanno fiducia in
se stessi e nelle potenzialità del proprio paese, che non vogliono
rassegnarsi al declino, alla perdita di valori e di rigore morale, che
non ne possono più di dividersi sul passato e su vecchi spartiacque
ideologici.
Questo è il tempo di un riformismo coraggioso.
Perché senza coraggio non ci può essere cambiamento.
E sappiamo tutti che nessun cambiamento vero può essere
indolore.
E mi chiedo: se non ora, quando verrà il momento del coraggio
riformista?
Se non ora che siamo all’opposizione, che non abbiamo congressi,
che non abbiamo il problema di tenere unita una coalizione o
tenere in piedi un governo, che non abbiamo campagne elettorali
vicine. Se non ora, quando?
18
Quando dimostreremo di voler cambiare davvero questo paese, la
forza di scontrarci con poteri e interessi forti, di rimettere in
discussione tutto, anche ciò che per i nostri mondi di antico
riferimento è comodo e rassicurante?
Se non ora, quando?
La destra ha messo in campo la sua riconversione.
Di fronte alla crisi alimenta le paure e promette protezione.
Sappiamo che è una politica illusoria, senza prospettive, che
tutelerà pochi e lascerà soli i più, che si fonda sull’idea di un
nemico da cui difendersi, a costo di inventarselo.
E’ il conflitto la cifra che la contraddistingue: Nord contro Sud,
garantiti contro non garantiti, anziani contro giovani.
Eppure, nella sua falsità, è un messaggio tranquillizzante e molti
hanno l’illusione di potersi trovare dalla parte di chi vincerà e
sopravviverà.
E intanto crescono le ingiustizie, le disuguaglianze, le distanze tra
ricchi e poveri. Ma di tutto questo non c’è percezione.
19
Allora noi dobbiamo avere la forza di sfidare apertamente questo
inganno, questa politica illusionista.
Ma per farlo dobbiamo cambiare prima noi stessi.
Non possiamo dare l’impressione di essere quelli che giocano solo
in difesa, nemmeno aspettando la possibilità di un contropiede, ma
sperando solo in un autogol degli avversari che ci faccia vincere.
Noi difendiamo tutto.
Sempre battaglie nobili e giuste ma difendiamo sempre: la
Costituzione, l’articolo 18, la stampa, l’autonomia della
magistratura, i sindacati, il parlamento e così via.
Non dobbiamo rinunciare a queste battaglie, ma o riusciamo a
spiegare che noi siamo nati non per difendere l’esistente ma per
cambiare il paese o non avremo più con noi le truppe per vincerle,
quelle battaglie nobili.
Il primo e più delicato banco di prova è il terreno istituzionale.
20
Sappiamo quanto sia difficile e stretta la strada delle riforme, e
quanto inaffidabile il fronte dei nostri interlocutori, a cominciare
dal presidente del consiglio, sempre oscillante tra la disponibilità
al confronto e la tentazione del colpo di mano a secondo della
convenienza del momento.
E tuttavia sappiamo anche che ammodernare e rendere più
efficienti le nostre istituzioni è una responsabilità che abbiamo
tutti di fronte al paese e al suo futuro. Un futuro che dobbiamo
saper misurare oltre gli attuali equilibri contingenti.
In altre parole: non possiamo costruire il modello istituzionale che
serve all’Italia in funzione del berlusconismo o
dell’antiberlusconismo.
Partiamo da una altra domanda: come rendere più efficiente la
nostra democrazia.
Oggi il problema non è più, come vent’anni fa, la stabilità del
governo.
21
Oggi le questioni sono altre: il rapporto governo-parlamento è
squilibrato a tutto vantaggio del governo, che attraverso i maxi
emendamenti, la fiducia, le ordinanze di protezione civile, l’abuso
di decreti, ha svuotato il parlamento.
Il problema che oggi il paese ha di fronte è quello di avere una
democrazia che decide, ma che resti democrazia, garantendo la
divisione e l’equilibro tra i poteri.
La nostra proposta à semplice, coerente con la storia costituzionale
italiana, in grado di sfatare l’idea che solo l’elezione diretta può
risolvere tutto.
5 punti:
1. Una sola camera che fa le leggi e dà la fiducia al governo.
2. Un senato federale e delle autonomie e una conseguente
riduzione del numero dei parlamentari.
3. Più poteri di controllo per il parlamento, con corsie
preferenziali per il governo e garanzie per l’opposizione.
4. Più poteri al Presidente del Consiglio nell’azione di governo
ma accompagnati da una legge rigorosa sui conflitti di
interesse.
5. Una legge elettorale che spinga al bipolarismo e che
restituisca agli elettori il diritto di scegliersi gli eletti,
tornando ai collegi uninominali.
22
Quindi, preciso meglio: no ad una legge elettorale come quella
tedesca, che porti di fatto alla fine del bipolarismo ed al ritorno ad
una stagione di maggioranze variabili e no ad un ritorno alle
preferenze che, diciamolo con chiarezza, portano, inesorabilmente,
a costi altissimi delle campagne elettorali con tutti i rischi di
corruzione connessi, a differenza dei collegi uninominali che
invece vogliamo.
Cambiare l’Italia, non difenderla dai cambiamenti.
Le parole della nostra cultura democratica sono grandi e
impegnative.
Ma spesso è come se il loro contenuto fosse evaporato.
Vanno riempite di significato.
Vanno nutrite di idee nuove.
Vanno rese corrispondenti alle domande nuove, all’emergere di
nuovi diritti, alle attese di nuove generazioni.
Dobbiamo chiederci, ad esempio, come sia potuto avvenire che la
parola libertà sia pian piano diventata parola della destra.
Dobbiamo riappropriarcene.
Un giovane nel nostro Paese può sentirsi effettivamente libero?
23
Il suo destino, il suo futuro sono effettivamente nelle sue mani?
Il suo futuro dipende dalle sue capacità, dalla sua buona volontà?
Dipende dal successo che avrà negli studi?
Dipende dalla sua intelligenza, dalla sua creatività?
Sappiamo che non è così, che drammaticamente non è così.
Sappiamo che la società italiana è sempre più bloccata.
Sempre più ingiusta. Sempre più prigioniera di privilegi, di
protezioni ereditate, di incrostazioni che la rendono immobile da
troppi anni.
Forse è addirittura inutile parlare di ascensore sociale, perché è
come se ricchi e poveri, garantiti e non garantiti non abitassero più
nello stesso edificio.
Salire è impossibile. Al massimo si può entrare. E si entra se si è
figlio di…, nipote di…, amico di…
Se si fa parte di una cricca o se si è utili ad essa.
Questo è in fondo il modello sociale dell’Italia di Berlusconi: fai
strada se sei spregiudicato, furbo e arrogante.
24
La nostra Italia deve essere diversa: dimostriamo ai giovani che
l’arma per farsi valere è il loro talento.
Chiediamoci perché i nostri ragazzi, quelli che possono farlo,
vanno a cercare all’estero lo spazio della loro crescita
professionale?
E perché quando sono fuori dai nostri confini raccontano di aver
trovato società vive, dinamiche, multietniche e di avere respirato
per strada libertà e il futuro, non paure e tristezza come da noi?
Perché siamo una società bloccata, priva di mobilità sociale e
territoriale.
I nostri giovani in molti casi hanno più talento dei loro coetanei di
altre nazionalità.
Investiamo su di loro, sulla loro formazione. Facciamogli girare il
mondo, creiamo le condizioni perché sia valorizzato chi merita.
Noi dovremmo puntare su tutto ciò che schioda l’immobilismo e
crea aperture e mobilità.
Faccio solo alcuni esempi.
25
Perché non immaginare un anno di Erasmus obbligatorio all’estero
durante il percorso formativo?
Perché non investire risorse per chiamare studenti stranieri in
Italia, in particolare nelle Università del sud, che ha bisogno di
innesti di novità e diversità?
Perché non immaginare un Erasmus interno, portando 100.000
giovani del sud a studiare al nord e 100.000 giovani del nord a
studiare al sud?
Perché non spostare incentivi e detrazioni dalla proprietà della
casa, che vincola alla immobilità, all’affitto che invece aiuta la
mobilità territoriale e lavorativa
Dobbiamo liberare la società italiana, sprigionare energie, non
proteggere rendite di posizione.
Offrire opportunità, non solo tutele.
Abbiamo un grande e ricco dibattito, dentro Area Democratica, sul
tema del lavoro, e questi giorni serviranno per approfondirlo,
anche tecnicamente.
Abbiamo proposto, tutti d’accordo, interventi urgenti: sostenere
con la detassazione i redditi medio bassi dei lavoratori e dei
26
pensionati. Estendere gli ammortizzatori sociali, assegno di
disoccupazione a tutti i lavoratori colpiti dalla crisi.
Ma non basta tamponare.
Occorre pensare al dopo, a come vogliamo che sia il mercato del
lavoro del futuro. E qui siamo più divisi tra noi.
Io vorrei solo limitarmi a dire una cosa: attenzione a non fare una
discussione datata, parlando di un mondo che non c’è più,
distinguendoci tra noi su sul tipo di braghe da mettere a chi non
vuole proprio più indossarle.
Oggi il sogno di un ragazzo non è più quello di suo padre: il posto
fisso, identico per tutta la vita, tranquillo nello stesso luogo.
E non parlo solo dei livelli alti. Sia un ricercatore universitario che
un giovane cameriere oggi, a differenza dei loro genitori, sognano
molto di più di loro di cambiare nel corso della vita lavoro e città.
Vogliono vivere una vita dinamica, vogliono opportunità oltre che
garanzie e tutele.
27
E noi invece parliamo solo di queste. Tipologie contrattuali,
regole, protezioni ma sembriamo incapaci di capire cosa
desiderano per il loro futuro.
Poi discuteremo delle norme ma prima dobbiamo accordarci sui
principi ispiratori. E io penso che un partito riformista al passo coi
tempi debba pensare a un mondo del lavoro in cui esiste una base
di garanzie universali per tutti, anche oltre la distinzione lavoro
dipendente e autonomo, e poi lascia un grande spazio
all’autonomia contrattuale.
Base comune di tutele su rapporto di lavoro, previdenza,
ammortizzatori sociali, salario minimo, ma poi libertà e dinamicità
nelle tipologie contrattuali.
Flessibilità come opportunità, non come condanna alla precarietà
e alla paura del futuro.
Anche qui dobbiamo essere capaci di fare battaglie giuste senza
chiederci troppo se ci costeranno in termini di consenso, se
verranno capite dai nostri tradizionali mondi di riferimento, se
sono troppo moderate o troppo di sinistra.
28
Sono parametri di valutazione vecchi, che condizionano la nostra
capacità di innovare e che non esistono più nella testa degli
elettori ma residuano solo nel modo di pensare di troppi nei gruppi
dirigenti.
Scegliamo battaglie giuste senza chiederci come classificarle
secondo le categorie ideologiche del 900.
E diciamo dei sì e dei no, senza paludati detti e non detti.
Diciamo cose chiare con un linguaggio che la gente capisca.
Questo vogliamo: un Pd capace di dire sì, sì, no, no, senza pensare
se una cosa è troppo moderata o troppo di sinistra.
Si all’acqua pubblica, sì a un referendum che, ben al di là
dell’effetto tecnico dei quesiti, rappresenta una grande battaglia
culturale per la difesa dell’acqua come bene pubblico, prezioso e
limitato, da sottrarre alle sole logiche del mercato e del profitto.
No all’anzianità e sì al merito e ai risultati come criteri per gli
avanzamenti di stipendio e di carriera.
29
Sì a far pagare più tasse alle imprese che inquinano e meno a
quelle che investono in ricerca
No al nucleare, senza ambiguità, per ragioni economiche e sì
invece a quella che dovrebbe essere la naturale vocazione italiana
per le energie rinnovabili.
Si a una società in cui l’immigrazione e l’integrazione diventano
un modo di preparare i giovani al mondo multietnico in cui
dovranno crescere e invecchiare.
No all’immobilità di un sistema di protezioni sociali che tutela i
più anziani ma abbandona i giovani, li priva di futuro e sì quindi
ad un innalzamento dell’età pensionabile, prova di solidarietà e
non di egoismo nei rapporti tra generazioni.
Si a una politica che recupera il senso etico di alcune battaglie,
indipendentemente dagli interessi che toccano e da come vengono
lette politologicamente.
Non so se è troppo di sinistra, ad esempio, pensare ad una
moratoria nell’acquisto di sistemi d’arma da parte del nostro
30
governo. Ma credo che in un frangente come questo di gravissima
crisi sociale, nel quale si fatica a racimolare le risorse per lenire la
sofferenza di centinaia di migliaia di persone, sia francamente
incomprensibile, e direi anche oltre la soglia delle cose
moralmente accettabili, spendere in armi da guerra.
10 miliardi in tre anni, hanno previsto.
Sono solo alcune piste di discussione.
Ciò che dobbiamo sapere è che la strada che dobbiamo cercare
insieme non può che essere quella del cambiamento, non della
conservazione, se vogliamo essere fedeli all’impegno che abbiamo
assunto quando abbiamo detto che saremmo stati un partito nuovo,
nato per ricostruire la coscienza civile di questo paese, per
liberarlo dalla conservazione e dalla paura.
Questo è il ruolo di Area Democratica.
Non una vecchia corrente, nata per tutelare i propri aderenti nella
vita interna, ma una moltitudine di persone, culture, sensibilità che
sa che la propria missione è quella di tenere il Partito Democratico
il più possibile vicino all’idea originaria.
Incontro anch’io in giro disillusione e stanchezza. Qualche volta
anche rabbia per un disegno così entusiasmante che sembra
ripiegato su se stesso così in fretta.
31
Vorrei che tutti noi dicessimo a quelle persone che siamo appena
all’inizio, che il partito è appena nato e dovrà durare decenni, che
la vita politica, come la vita, è fatta di vittorie e sconfitte, di gioie
e amarezze.
Ma non possiamo fermarci. A noi lo impedisce quel milione di
persone che a noi ha affidato le speranza in un partito diverso e in
un’Italia migliore, abitata da italiani nuovi.
Qualche giorno dopo le primarie ho ricevuto, tra le centinaia di
messaggi pieni di delusione e di affetto, il biglietto di una ragazza,
una delle tante volontarie che hanno affrontato con noi la
scommessa del 25 ottobre.
C’era scritto: abbiamo visto la stella ma non ci abbiamo creduto.
Anche per lei non possiamo fermarci.
Anche per lei dobbiamo alzare lo sguardo e riprendere a
camminare.