Tre rintocchi di campana più piccoli e due più potenti? Potevano essere le 2, 45 della notte, le 8,45 del mattino o le 14,30 del pomeriggio. Due colpi piccoli e 5 gravi? Le 5,30 oppure le 11,30 o le 17,30.
L’immagine, per quanto bella, non può rendere l’idea di quale fosse, per intero, lo scenario che si parava davanti agli occhi di chi si affacciasse alle finestre di quella casa.
D’altra parte mezzi tecnici offerti dall’epoca , quelli dei primi anni ’70 del secolo scorso, non potevano fare di più e, nonostante le indubbie capacità del mio amico fotoamatore (1), dalla foto rimase purtroppo escluso lo sfondo suggestivo della Valdichiana che si estendeva, amplissima, alla sinistra e alle spalle dei tre monumenti architettonici che meglio simboleggiano il rilevante prestigio politico, culturale ed economico raggiunto da Cortona in secoli ormai lontani.
Non era la prima, quella, tra le case in cui avevo avuto l’occasione di abitare fino ad allora ad offrire allo sguardo panorami di tale respiro: una possibilità che non avrei mai avuto nel caso in cui la mia famiglia fosse stata proprietaria di una casa e avessimo perciò vissuto stabilmente sempre in quella.
E anche se il fatto di abitare in case non nostre non derivava, beninteso, da una stravagante e libera scelta dei miei genitori ma da un obbligo imposto loro dalle nostre modeste condizioni economiche, quella situazione di oggettivo svantaggio, guardata oggi con gli occhi della nostalgia, mi appare un’opportunità offertami dalla sorte, quasi un privilegio.
D’altra parte quella del vivere in case prese in affitto era una condizione che, ancora a quei tempi, accomunava la mia famiglia alla gran parte dei residenti nel centro storico di Cortona e che, interessando trasversalmente quasi tutte le categorie sociali, metteva alla pari operai, impiegati e anche professionisti affermati. Veniva perciò vissuta come normalissima e, rivelandosi spesso non troppo onerosa, comunque meno impegnativa di un disdicevole “debito con la banca” (termine con cui allora veniva identificato quello che oggidì noi chiamiamo “mutuo”), appariva addirittura conveniente.
In alcune circostanze che potremmo definire un po’ “antipatiche”, poi, poteva dimostrarsi perfino..strategica.
Se infatti una casa era diventata troppo piccola o troppo grande per una famiglia, se quell’abitazione aveva bisogno di ristrutturazioni che la rendessero più igienica o più sicura ma il proprietario faceva orecchi da mercante, se i rapporti con il vicinato o gli inquilini troppo chiassosi o impiccioni si erano deteriorati al punto da rendere insopportabile la contiguità, perché litigare quando esisteva una soluzione indolore, veloce e risolutiva quale quella di “alzare diplomaticamente i tacchi”?
Bastava mettersi in cerca di un’ altra dimora e, nel giro di non troppo tempo, la si sarebbe trovata visto che a Cortona, quando ancora il boom turistico non aveva reso tutto più costoso e difficile per i residenti, di case da affittare a tempo indeterminato se ne trovavano. E anche facilmente.
E così, per esempio, quando la mia mamma cominciò a lamentarsi sempre più spesso di quanto fosse faticoso salire ogni mattina, e con le borse della spesa a pieno carico, fin su quasi al “Poggio” dove fino ad allora abitavamo in una casa spaziosa, soleggiata, iperpanoramica, molto apprezzabile per la sua vicinanza ad uno dei rioni più tranquilli e suggestivi della città, ma innegabilmente scomoda per chi come lei era costretta ad arrivarvi a piedi, la decisione fu presto presa: nel giro di pochi giorni e per un canone di locazione che anche le finanze di un modesto barbiere quale era mio padre potevano dignitosamente permettersi, il nuovo appartamento era trovato.
Senza impegnative salite da scalare, vicinissima a tutti i negozi ed al mercato settimanale, con stanze ampie e numerose finestre che offrivano una vista che non aveva proprio niente da invidiare a quella di cui godevamo in precedenza, la casa in cui ci trasferimmo quando io frequentavo ancora il liceo, fu l’ultimo dei traslochi che affrontai insieme alla mia famiglia di origine.
Era un grande appartamento che occupava l’ultimo piano della parte aggiunta a quello che nel medioevo era stato l’altissimo e in origine “turrito” (2) “Palazzo del Capitano Popolo” ora conosciuto come Palazzo Passerini perché era stato il Cardinale legato da stretta amicizia al Papa Leone X a modificarlo nel modo in cui noi oggi lo vediamo dopo che, nel 1512, il Comune glielo aveva ceduto.
Ma anche se dalle finestre di quell’edificio l’occhio veniva immediatamente attratto dall’immagine d’insieme offerta dal Palazzo del Comune, dal Palazzo Casali, dal Cristofanello – o Palazzo Laparelli che dir si voglia- e dalla cupola verdastra della chiesa di San Filippo, bastava poi che lo sguardo si allargasse verso l’orizzonte ed era la vista della Valdichiana, in tutta la sua estensione, a procurare in chi guardava un senso di ammirato stupore.
A quello scenario “cinemascope” si aggiungeva poi, in quell’abitazione, la posizione privilegiata, proprio quella di prima fila, sulla vista della torre comunale con il suo grande orologio e la conseguente e inevitabile diretta “stereofonica” del suono delle campane che lo abitavano.
Un rumoroso concerto “live” che nessuno dei componenti della mia famiglia aveva messo in conto prima, quando cioè saremmo stati ancora in tempo a fare uno “elegante” dietro-front.
Preoccupatissimi ma impotenti, realizzammo che da quel giorno in poi al passare di ogni quindici minuti, di giorno e di notte, e inesorabilmente, ci saremmo dovuti “sorbire” un “segnale orario” sonoramente vigoroso e puntuale, una altisonante performance eseguita da due secolari e pesantissime campane di bronzo che, ripeto, di giorno e di notte, ogni quindici minuti si sarebbe tenuta ad una distanza di non più di cinquanta metri in linea d’aria dalle nostre finestre. Di giorno e di notte. Ogni quindici minuti.
C’era di che fare armi e bagagli e tornarsene da dove eravamo venuti.
Il nostro disappunto durò però e per fortuna, pochissimo.
Bastò infatti una sola giornata perché ci rendessimo conto che a quella “colonna sonora” il nostro orecchio si era subito assuefatto e che, quel suono, per quanto frequente e potente, stranamente non dava alcun disturbo.
Non ne dava di giorno e, incredibile ma vero, neanche di notte.
Ci volle poi anche poco perché ci affezionassimo a lui una volta constatato che, in fondo e in fine, i suoi rintocchi avevano una indubbia utilità.
Era stato infatti sufficiente sforzarsi appena un po’ per imparare a conoscere il suo “linguaggio” rumoroso ma gradevole e mai nessuno di noi, in qualsiasi stanza si trovasse, in qualsiasi faccenda fosse occupato, era più stato costretto ad interrompere l’attività in cui era impegnato per consultare una sveglia o un orologio: ognuno di noi faceva infatti affidamento sul “segnale orario” proveniente dalla torre che, precisissimo, ci teneva costantemente aggiornati.
Con i loro rintocchi quelle campane cadenzavano la vita della piazza e dell’intera città attraverso un “codice acustico” ormai vecchio di secoli, un linguaggio sonoro che poteva forse apparire misterioso ai i passanti occasionali, ma che non lo era affatto a molti dei cortonesi più anziani i quali, in gioventù, per orientarsi nello scorrere delle loro giornate non avevano avuto altro modo che far conto su quello che, proprio per motivo, era ed è tuttora denominato “l’orologio dei poveri”.
A me bastò un solo giorno di “studio” per comprendere quel messaggio cifrato, peraltro facilissimo da decodificare: per prima la campana più piccola (piccola si fa per dire) battendo uno, due o tre rintocchi puntualizzava quanti erano i quarti che di ciascun ora erano già trascorsi e, subito dopo, la campana dal suono più cupo e potente completava l’opera con rintocchi che, andando dall’uno al sei e ricominciando da capo per tre volte nell’arco dello stesso dì, indicava invece l’ora a cui appartenevano quei quarti.
A mezzogiorno, invece, il campanone si riservava un’esibizione da solista battendo 33 colpi per ricordare, si diceva, gli anni di Cristo, dando così “il la” alle campane di tutte le chiese fuori e dentro le mura che si affrettavano ad imitarlo suonando a loro volta. Si produceva poi in una replica da “single” alle 18 emettendo 66 rintocchi e concludeva il suo festival personale augurando la buonanotte ai cortonesi con ben 99 colpi di “batocchio” (o batacchio come si dice in altre parti d’Italia). Questo accadeva però alle 22 e non alle 24. Evidentemente, qualcuno tra i nostri antichi predecessori, rispettoso delle esigenze dei suoi consimili, ritenne la mezzanotte un’ora in cui sarebbe stato poco delicato disturbare i sonni della gente…
Per me quell’orologio e le sue campane si rivelarono una vera risorsa: se, per esempio, ai tempi della scuola mi svegliavo durante la notte e la campana piccola suonava una sola volta e subito dopo il campanone batteva quattro dei suoi colpi più poderosi, non c’era bisogno che accendessi la luce per guardare la sveglia sul comodino: senza dubbio erano le 4,15 . Beatamente, mi accucciavo meglio nel letto contenta di potermene tornare nel mondo dei sogni ancora per un bel po’.
Se invece in periodo di vacanze mi accadeva di uscire dal sonno quando il sole era già abbastanza alto nel cielo e in quel momento sentivo rintoccare la campana più piccola per tre volte e ancora tre volte rintoccava il campanone mentre contemporaneamente dalla piazza proveniva un certo motivetto fischiettato, il solito da anni, ripetuto, insistente, ogni mattina invariabilmente sempre uguale a se stesso, c’era da scommetterci: erano già le 9,45.
Con quell’allegro fischiettìo, infatti, “Cecchino”, il fruttivendolo ambulante che quotidianamente esponeva le sue merci in “Pesceria”, colui che grazie alla sua infinita pazienza e generosità tra i commercianti cortonesi era il più amato dalle signore, dimostrava la sua soddisfazione per esser arrivato quasi alla metà della sua mattinata di lavoro ed aver resistito, indenne, agli assalti delle casalinghe più agguerrite, quelle che fin dal primissimo mattino lo aspettavano, impazienti e scalpitanti, assillandolo per ottenere, ognuna a scapito delle altre, gli ortaggi più freschi e la frutta migliore, e per estorcergli poi un maggior sconto, sullo sconto, delle merci che già in partenza erano discretamente scontate. E il tutto, naturalmente,doveva svolgersi il più celermente possibile, perché loro, le casalinghe da manuale, di tempo da perdere non ne avevano di certo.
Passate le prime ore della mattinata, però, la temuta e pericolosa offensiva delle “Amazzoni dei fornelli” era scongiurata ed erano le cortonesi meno esigenti e bellicose quelle che, con modi meno invadenti ed aggressivi, venivano a fare acquisti: il mansueto Cecchino poteva tirare un gran sospiro di sollievo e finalmente fischiettare con tutta l’entusiasmo di cui disponeva. Ne aveva ben donde!
Quando però i rumori che provenivano dalla piazza erano quelli dei gruppetti di uomini intenti a discutere di politica o di sport accapigliandosi, brusìo che unito al chiasso dei ragazzi che attraversavano la piazza in bici o rincorrendo palloni dimostrava che era pomeriggio, se la campana più piccola aveva appena battuto due colpi e il campanone quattro erano le 16,30. Veramente elementare.
Quelle campane erano poi la mia compagnia anche nelle notti insonni di quando, ormai raggiunta l’età della ragione, per i motivi più impensati l’angoscia o l’ansia si impadronivano di me. Potevo infatti calcolare, ogni quindici minuti, quanto mancava all’arrivo dell’alba, momento in cui, chissà perché, le mie paure si scioglievano come neve al sole e, finalmente serena, scivolavo nel sonno.
L’ultima delle notti in cui, con trepidazione, ho contato le ore insieme alle due inquiline secolari della torre comunale, quarto d’ora dopo quarto d’ora, è stata la notte forse più lunga ma anche più breve della mia vita, quella che ricordo con più struggimento e che mi ha fatto diventare inevitabilmente adulta: la mia ultima notte prima di diventare mamma.
Furono ore infinite ma passarono in un battibaleno.
Non volendo arrendermi al fatto che mio figlio volesse nascere prima del previsto, convinta che sarebbe stato inutile rovinare il sonno a mio marito e ai miei genitori con un falso allarme perché quelle che sentivo, ne ero convinta, non potevano essere assolutamente le doglie del parto, attendevo paziente e trepidante ogni risuonare delle “mie amiche” campane che mai come quella notte mi sembravano condividere con me la veglia e l’attesa del mattino.
Aspettavo fiduciosa di sentire un solo rintocco, quello delle sette, un’ora ragionevole per svegliare i miei che nel frattempo, beatamente, continuavano a dormire ignari di tutto.
Quando all’inizio di tutta la storia mi ero svegliata, avevo sentito rintoccare due colpi piccoli e due più cupi: “sono le due e mezzo” mi ero detta “Chissà perché mi sento così strana e il pancione mi dà così fastidio? Sarà la digestione? Non posso dirlo ai miei, mi rimprovererebbero ripetendomi una volta di più devo che mangiare di meno, molto meno, e specialmente di sera”
Secondo il corso naturale delle cose, infatti, era ancora troppo presto per pensare che quelle potessero essere doglie, non avrei mai immaginato che quello che stava per nascere (bambino o bambina che fosse, le ecografie all’epoca erano cose fantascientifiche) avesse tanta fretta di venire al mondo anticipando la sua uscita alla luce del sole almeno di una ventina di giorni prima del previsto.
Non potevo di certo sapere che dentro la mia pancia, quella di una donnina piccina picciò quale ero io, albergasse uno spilungone di 56 cm di lunghezza che, giustamente, non riusciva più a resistere tutto ripiegato su se stesso in quel luogo già tanto angusto che la sua “mammina”, ingorda, ad orari più che regolari e nemmeno troppo distanziati, provvedeva a riempire a dismisura inviando giù dosi esagerate di cibi che andavano ad occupare gran parte dello spazio che avrebbe dovuto esser riservato a lui.
Le 2, 30, le 2,45, le 3 e così via…le campane mi tenevano informata su ogni quindici minuti trascorsi e quando verso le 5 mi ero ormai resa conto che quelle che io credevo solo “pigiature in fondo alla mia pancia” erano troppo cadenzate e regolari per essere sintomi di indigestione e che tale regolarità si era ristretta dalla mezz’ora ai venti minuti, poi a un quarto d’ora e poi anche meno, mi arresi all’idea che quelle erano le famigerate doglie e che forse era meglio svegliare mio marito perché mi accompagnasse all’ospedale che raggiungemmo a piedi visto che era lì ad un passo.
Quando l’orologio del comune batté un solo colpo, le tanto attese sette del mattino, io stavo già uscendo di casa e, alle 10 in punto, mio figlio era già nato.
In quel momento l’orologio della piazza avrà battuto di certo i suoi quattro colpi, ma io non li sentii: ero troppo presa dal far conoscenza con il mio bambino per notare cosa ci stava accadendo intorno ed ero anche orgogliosa di noi due: con l’unica compagnia delle campane della torre comunale, senza disturbare il sonno di nessuno, insieme, io e lui, avevamo portato a compimento felicemente, e senza neanche far troppo scompiglio, l’impresa più impegnativa e coraggiosa della nostra vita.
Era il 23 maggio 1978.
Una volta tornata dall’ospedale io, mio marito, e il nuovo arrivato rimanemmo in quella casa per circa tre mesi ancora e poi, prima che arrivasse l’autunno, decidemmo di andarcene da lì convinti che, con un neonato, in una casa di fresca costruzione, con tutti i comforts che la vita moderna poteva a quel momento offrire, con parcheggi a iosa proprio davanti alla porta d’ingresso, saremmo stati come papi.
Non sapevo che in quella nuova sistemazione in una zona che era poco più che un quartiere dormitorio, in cui dal mondo esterno non arrivavano altri rumori di fondo se non il lontano e per fortuna raro ma, quello sì irritante, suono delle campane elettriche della chiesa circostante, lì in quell’ area di periferia dove le poche ma inappuntabili casalinghe passavano i loro dì, d’estate e d’inverno, in autunno come in primavera, in abitazioni nuove di zecca ma perfettamente e noiosamente uguali le une alle altre, tristemente anonime perché tutte minuziosamente arredate con nuovissimi mobili di serie, appartamenti museo nelle cui stanze tutte le tapparelle venivano tenute totalmente abbassate pur di non far entrare un filo di polvere, non sapevo, dicevo, che le giornate, terribilmente piatte perché neanche la minima presenza di vita sociale le animava un po’, sarebbero scorse per me e per il mio bambino lentissime e deprimenti.
E non avrei nemmeno mai immaginato che nelle notti – le innumerevoli e interminabili notti insonni in cui con in braccio mio figlio, rivelatosi, ahimé, un sadico nottambulo seriale, mentre aspettavo che in quel pauroso silenzio totale e assoluto che avvolgeva la nostra casa un suono, una voce, un’auto che passava, mi convincessero che no, io e lui non stavamo fluttuando soli nel buio cosmico dell’universo come lo sfortunatissimo astronauta fuoriuscito dalla navicella spaziale di “2001 odissea nello spazio”- niente altro avrei potuto fare che ricordare con immensa nostalgia e amaro rimpianto, il suono amico delle campane della torre comunale che almeno, a cadenze regolari, mi avrebbero segnalato che mancava sempre meno, la luce del giorno stava per arrivare.
E’ stata una vera delusione, una volta tornata ad abitare nel centro storico, accorgermi che le antichissime “signore” della torre, dopo tanta storia e tanta dedizione al loro lavoro, ancora in piena salute nonostante l’età molto avanzata, erano state ridotte al silenzio più totale: un pensionamento imprevisto e inaspettato avvenuto senza neanche che i cortonesi potessero organizzare per loro la cerimonia di addio che di consueto si riserva a tutti coloro che chiudono onorevolmente la loro carriera.
In città si disse, ma non so con quanta cognizione di causa, che le loro vibrazioni erano divenute pericolose per la stabilità della torre comunale e che, una volta messa in sicurezza quest’ultima, le loro performances musicali sarebbero ricominciate. Ma non è accaduto.
E dire che una di loro già risuonava nella piazza fin dal 1267 e che quando era un orologio solare ad indicare lo scorrere delle ore agli abitanti della Cortona “libero Comune” lei con i suoi rintocchi si premurava già di avvertirli di eventuali pericoli in arrivo, di annunciar loro quale fosse il momento della sera o dell’alba in cui sarebbero state chiuse o aperte le porte della città, di render noto alle sentinelle che era giunta per loro l’ora di iniziare il turno di vedetta sulle torri che si elevavano sulle mura di cinta, e si preoccupava anche di avvisare i cortonesi che, essendo calato il buio, era divenuto obbligatorio chiudere le pubbliche taverne ed interrompere i giochi che in esse si svolgevano, e che, pena sanzioni, era doveroso spengere i focolari domestici servendosi del “testo”. Era compito di quella campana, poi, informare tutti i propri concittadini che da quel momento in poi le guardie comunali avrebbero cominciato a percorrere in lungo ed in largo le piazze e le vie della città per controllare che nessuno più si aggirasse in esse.(3)
L’altra era arrivata a coadiuvarla nel 1536 quando già erano trascorsi 27 anni dal momento in cui l’orologio solare era stato sostituito dal particolarissimo orologio di marmo bianco le cui lancette giravano, forse uniche in Italia, in senso antiorario su di un quadrante che comprendeva tutte le ventiquattro ore (cliccando sul link che segue potrete, se volete, rileggerne la storia ed osservarne il probabile aspetto che tempo fa io stessa tentai forse un po’ ambiziosamente di ricostruire per voi (in questo articolo).
Un orologio veramente originale che aveva troneggiato nella torre solo fino al 1750 quando cioè, per aderire ad esigenze di modernità, fu purtroppo deciso che quest’ultimo lasciasse il posto al “collega” quello che arreda la torre comunale ancora ai giorni nostri, mentre le due campane, fedeli ed instancabili, senza colpo ferire continuarono a a svolgere diligentemente il loro compito fin quasi alla fine del secondo millennio, quando cioè, considerate ormai una tradizione sterile ed un costo inutile da sostenere, si è ritenuto più che sufficiente relegarle a ricoprire il ruolo di mero e muto arredamento di di quella che, non essendo mai stata oggetto delle ristrutturazioni che si diceva le fossero indispensabili, non dovrebbe godere di una salute troppo eccellente.
Peccato.
Ringrazio il Dott. Egidi Roberto autore della foto pubblicata a inizio post e Marco Scaramucci che alla stessa foto ha apportato accorgimenti tecnici che le hanno restituito l’originale vividezza e l’hanno resa adatta alla pubblicazione su questo sito.
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Note:
1) Dott. Egidi Roberto
2)) “Immagine di Cortona – Guida storico-artistica della città e dintorni” – Angelo Tafi – Grafiche Calosci Cortona 1989
3) Simone Allegria – Valeria Capelli “Statuto del Comune di Cortona 1325-1380” Leo S.Olschki Editore – Firenze 20014