Si è ricomposta tutta, e in un battibaleno, la combriccola delle amiche di gioventù e ognuna, con un entusiasmo che non mi sarei mai aspettata, ha cercato di aiutarmi a raccogliere materiale perché questo articolo potesse vedere la luce.
Chi ha mandato foto di abiti ancora conservati nei guardaroba di famiglia, chi non avendo foto ha inviato disegni, chi ha collaborato cercando di richiamare alla memoria episodi degni di nota. Per tutte, comunque, è stato un divertente salto in un passato molto piacevole a ricordare, un rivivere l’emozionante atmosfera di fremente aspettativa che ogni anno produceva nell’ambiente cittadino, l’evento più atteso dell’inverno: il mitico veglione che, ad ogni fine Carnevale, si teneva al Teatro Signorelli.
Quelli che noi “ragazze” (ancora ottimisticamente ci ostiniamo a definirci così) ricordiamo sono i veglioni di fine anni ‘60 e inizi anni ‘70, quando ancora l’ “austerity” non si profilava all’orizzonte e la gente era piena di speranza e di voglia di divertirsi, quelli in cui nessuno ancora riteneva vergognoso spendere un patrimonio per una serata, men che meno poi questa serata era l’evento clou della mondanità locale a cui si degnavano di partecipare perfino un gran numero di persone della Arezzo o Perugia “bene” che, a quanto si diceva, non avevano dalle loro parti feste danzanti dove l’eleganza ed il buon gusto la facessero da padroni come qui, al nostro teatro.
Per le signore dell’epoca, effettivamente, era questa l’ occasione unica per vedere ed essere viste in “sciccosi” abiti da sera che spesso non avevano niente da invidiare alle mises che si ammiravano indosso alle più famose protagoniste della canzone italiana nelle serate del Festival di Sanremo, lo spettacolo televisivo allora al top dei top in quanto a sfavillio di eleganza.
Dame e damigelle cominciavano a parlare del veglione dell’anno a venire fin dalla fine dell’estate e già in ottobre iniziavano a consultare riviste di moda, ad andare in giro per i negozi di stoffe per cercare tessuti speciali, per impegnare, tra le allora numerose sarte del nostro territorio, proprio quelle che assicurassero loro la puntualità e la bravura necessaria per adempiere ad un così alto compito e che, soprattutto, fossero così fidate da garantire ciò che era la cosa fondamentale: la segretezza assoluta su modello, colore e foggia dell’abito che ciascuna aveva scelto per l’edizione di quell’anno.
Soprattutto tra le signore di un certo milieu sociale la gara per primeggiare in lusso e originalità era tale che alcune di esse si rivolgevano a vere e proprie sartorie professionali che cucivano su misura outfit appositamente pensati per loro.
Tutto ciò perché per chi volesse seriamente rendere onore all’idolatrato veglione l’imperativo categorico era: sorprendere e meravigliare le amiche, le rivali, le curiose che andavano alla festa per aver un argomento di conversazione nei giorni o addirittura nelle settimane a venire.
10 febbraio 1970, martedì grasso, mio primo ed ultimo veglione: non avevo ancora 17 anni, ne dimostravo solo 11, ero alta un soldo di cacio (come d’altra parte ora), e non avevo alcun interesse per queste occasioni che ritenevo odiosamente frivole. Avevo però deciso di cedere, per farla contenta, alle insistenze di una mia amica con la quale avevamo sempre condiviso tutto, giorno di battesimo compreso.
Lei che al contrario di me era già molto femminile nell’aspetto e nel comportamento, aveva scelto di farsi cucire un abito veramente glamour copiandolo da questo che nella foto vedete indossare alla fotomodella Jean Shrimpton, una delle più belle protagoniste della “swinging London”.
Per me, recalcitrante all’idea di vestirmi da “signorina romantica”, lei e sua madre, vera “stilista della maglieria” pensarono a tutto. Realizzarono quindi in lamé argentato lavorato a maglia il collo ad anello, le maniche e la trecciolina da applicare alla tunichetta in tessuto di cady bianco, che io stessa avevo progettato ispirandomi allo stile “baby” della notissima modella Twiggy
Purtroppo acquistarono per me anche le scarpe. Anche queste argentate, e perché fossero della stessa esatta sfumatura dell’argento dei particolari dell’abito, trascorsero un pomeriggio intero a cercarle con gran pazienza nei vari nei negozi di Arezzo.
Peccato però che queste graziose calzature, essendo state comprate per procura, non andassero proprio d’accordo con i miei piedi e mi costringessero a camminare con un’andatura ben poco elegante, anzi…. Secondo loro la cosa non era poi così importante: soffrivo come un cane e non potevo ballare, però ero tutta coordinata nei colori e nello stile!
Avete guardato bene nel lato sinistro della foto sopra? Se non avessi avuto i piedi distrutti, credete che avrei potuto resistere per ore ed ore lì seduta vicino al muro, mentre alcune delle mie coetanee facevano trenini nella platea e nei corridoi del teatro e altre ballavano sfrenatamente al ritmo di “Venus”, la canzone degli Shocking Blue che quella sera, in mezzo a valzer, sambe, tanghi, hully gully, cha cha cha, veniva ripetuta, almeno una volta ogni quindici minuti. Sembrava tutto fatto apposta per farmi morire di rabbia!
Senza contare poi la vergogna che mi procurava il dover tollerare quella specie di “polpettina” in testa che, non ricordo quale sedicente “hair stylist” locale idiotamente mi aveva acconciato in testa!
Per mia fortuna Mary Quant da qualche tempo aveva molto svecchiato l’ambiente della moda e, contrariamente a ciò che succedeva in passato, quell’anno costituiva veramente un must vestirsi in corto, molto corto e con colori molto brillanti. Sarebbe stato veramente il colmo se, oltretutto, fossi stata costretta ad indossare un tubino nero da “signorina di buona famiglia”!
Anche Patty Pravo, la più trasgressiva dello eroine dello spettacolo italiano, aveva fatto la sua parte per suggerire alle giovani cosa indossare in quella serata ed infatti un suo abitino nero con i jabots bianchi era piaciuto molto alle ragazze.
Mi correggo: era piaciuto troppo. Quella sera si verificò infatti una cosa imbarazzantissima, da sempre la più temuta dalle partecipanti al veglione… due di esse si presentarono a Teatro con un abbigliamento, che pur diverso nei colori, era perfettamente identico nella foggia perché copiato da quello portato dalla cantante veneziana nella foto che avete visto sopra.
Ad esser sinceri, nonostante lo scossone di modernità che insieme alla moda avevano subito anche la mentalità ed i costumi sociali, ancora in quegli anni per un gran numero di cortonesi, una buona parte del fascino del partecipare alla kermesse di fine carnevale era costituito dal poter scrutare nei minimi particolari, e talvolta con una punta di malizia o perfidia, le signore, quelle considerate piu “in”, proprio quelle che con i loro “outfit” di charme destavano l’ammirazione e l’invidia delle persone meno fortunate che non potevano permettersi di vivere così “à la page” come loro.
Non esisteva ancora, all’epoca, la possibilità di farsi selfies e neanche esistevano i marchingegni elettronici grazie ai quali chiunque può facilmente scattare fotografie senza essere un esperto del mestiere.
Per immortalare i partecipanti alla serata stazionavano perciò nella sala i due fotografi professionisti della città che con vera maestria facevano vere proprie fotografie artistiche che nei giorni successivi all’evento venivano esposte nelle vetrine dei loro negozi di Via Nazionale per essere acquistate da coloro che erano stati ritratti e che volevano serbare ricordo perenne della fatidica serata.
Al figlio di uno di questi artisti, Giorgio Lamentini, devo tutta la mia gratitudine poiché mi ha gentilmente concesso di pubblicare alcune foto prese dall’archivio paterno.
Per i modelli di cui non siamo riuscite a rintracciare foto, quelli degli abiti lunghi preziosi ed esclusivi indossati dalle signore più glamour della Cortona, ma soprattutto Camucia-bene, la mia amica Marcella, che aveva un vero “pallino” per la moda, quella sera fissò nella propria memoria in maniera indelebile ogni abito e ricorda ancora perfettamente chi indossava il vestito decorato con paillettes e di che colore era, chi aveva invece l’abito di chiffon o di taffetà con strass, chi lo aveva di velluto o di voile. Da vera artista li ha disegnati per voi.
L’aura di autorevolezza che nei giorni successivi procurava il poter riferire i particolari della serata alle persone che non avevano potuto partecipare all’occasione mondana ma che, avide di notizie in materia, attendevano smaniose i commenti dei fortunati testimoni oculari, era uno dei motivi per cui tanti miei concittadini non avrebbero rinunciato a partecipare all’ evento neanche per tutto l’oro del mondo.
Oltre alla scelta, molto impegnativa, dell’abito da mettere, coloro che volevano prender parte all’avvenimento più eccitante dell’inverno cortonese dovevano industriarsi, molto prima che il gran numero di richieste decretasse il “sold out”, ad affittare uno dei palchi del teatro da cui affacciarsi per guardare il palcoscenico dove si sarebbe esibito l’artista invitato a cantare nell’edizione di quell’anno. Il palco poi era la comoda e indispensabile postazione da cui tenere sotto controllo chi arrivava e criticarne o apprezzarne l’abbigliamento, sorvegliare chi ballava e con chi ballava, ma soprattutto era il luogo fondamentale in cui apparecchiare il gran cenone che, non esistendo ancora il catering, ci si portava da casa e che era fatto di crostini, sandwiches. timballi, pasticcini, bignés. crostate o cose simili.
Il biglietto, l’ abito, il palco: per molti questa nottata diveniva un vero e proprio impegno economico. Un vero problema per quelle famiglie che oltre alla mamma avevano due o tre figlie femmine da vestire!
Ma non importava perché il gioco valeva la candela, perché il veglione era per tutti l’occasione unica grazie alla quale si dimenticavano mesi e mesi di grigiore invernale.
Per questo motivo molte persone cercavano di ottimizzare le spese accordandosi tra di loro per affittare i palchi in società. Succedeva così che spesso un palco poteva esser frequentato anche da 10 o 15 persone che potevano esser legate da parentela o amicizia, ma che spesso erano solo semplici conoscenti, vicini di casa o abitanti dello stesso condominio.
Tra gli appassionati habitué del veglione c’era per fortuna un numero molto alto di persone che non si lasciava corrompere dalla gran mondanità ma che andava alla festa per amore della musica, del ballo e dell’allegria.
Dalle foto si nota, la gente aveva proprio voglia di spassarsela e sapeva farlo, eccome! I partecipanti si divertivano così tanto che talvolta l’arrivo a metà nottata del grande artista di turno, benché atteso con trepidazione da molti, quasi disturbava i “veglionieri” più esuberanti che, costretti a fermarsi per rispetto dell’arte, vivevano l’esibizione canora come un’ inutile pausa che avrebbe stemperato l’allegria.
L’edizione in cui anche io presi parte alla gran baldoria l’ospite era Ornella Vanoni molto in voga per aver lanciato, da pochi mesi, una delle sue canzoni più belle “Una ragione di più”, ma in quel palco, si erano cimentati molti altri artisti, ed erano quelli che di solito, in ciascun anno, andavano per la maggiore come i Ricchi e Poveri, Nini Rosso, Claudio Baglioni.
Detto tutto ciò, sareste ora curiosi di sapere come finì la mia serata?
Per fortuna, dopo aver trascorso un buon numero di ore a guardare quelli che “zompavano” e a stramaledire me stessa per essermi lasciata convincere a prender parte ad una serata che si era rivelata una indicibile sofferenza, ebbi un vero lampo di genio: constatai che a notte fonda ormai tutta la gente che era nella sala aveva perso l’aplomb iniziale, i ballerini erano ormai tutti sudati e sporchi di coriandoli, le signore avevano le pettinature che si stavano disfacendo, i rossetti e gli ombretti avevano cominciato a sciogliersi nei loro visi, gli abiti che erano costati loro tanto impegno e denaro si erano gualciti, chi si sarebbe accorto di me se mi fossi tolta quelle maledette scarpe? Il tappeto di coriandoli per terra, poi, era talmente alto che non avrei neanche sentito freddo ai piedi.
Mi feci coraggio e mi presentai nella sala scalza. Nessuno mi ritenne degna di un minimo sguardo. Cominciai allora ad agitarmi con gran soddisfazione al ritmo di quel benedetto shake che avevo tanto desiderato ballare durante le lunghe ore in cui ero stata costretta a far da tappezzeria.
Un mio amico più giovane di me di un paio di anni, ancora quindi un bambinone, aveva una voglia matta di fare scherzi e dispetti e mi chiese di aiutarlo ad aiutarlo.
Un vero e proprio invito a nozze per me sempre disponibile alle trasgressioni alla Giamburrasca.
Cominciammo a riempire di coriandoli raccolti per terra enormi sacchi che poi, una volta portati nei palchi, svuotavamo dall’alto in un colpo solo cercando di sommergere sadicamente quelle poche signore che non si erano ancora scomposte ed erano rimaste algide e impettite nei loro costosissimi abiti.
Fu la svolta della mia notte di Carnevale, quella che finalmente mi aiutò a rivalutare ed apprezzare il veglione della mia città.
Peccato però che il tempo passi presto quando ci si diverte.
Mi era sembrato di aver appena cominciato a spassarmela quando il salone cominciò a svuotarsi: era già arrivata l’ora di tornare a casa.
Era infatti mattina, la mattina del mercoledì delle Ceneri.
Che tristezza, era tutto finito ed era già iniziata la Quaresima che, all’epoca, obbligava tutti a rispettare un triste periodo di austerità in cui erano da evitare feste, balli, e possibilmente matrimoni.
Nella mestizia c’era però una consolazione e non era una consolazione da poco: uscendo dal teatro ed entrando in uno dei bar già aperti a quell’ora, avremmo potuto far colazione con le rinomate e inimitabili “spolette del Banchelli”, particolari brioches che la nota pasticceria produceva solo nel periodo quaresimale. Vere e proprie squisitezze che ogni anno, dalle Ceneri al giorno di Pasqua, ci davano modo di superare “dolcemente” i quaranta giorni in cui si sarebbe dovuto far a meno di danze e canti.