Sembra che la TV accesa a capodanno costituisca un obbligo morale. Come a dire che anche nelle migliori famiglie si è soggetti allo spettacolo di intrattenimento ed all’angosciante countdown collettivo. Noi abbiamo abbandonato la cornice popperiana già da diversi anni, un po’ per noia, un po’ per spazio, in larga parte per preservare i figli dall’inevitabile bombardamento mediatico e, lo ammetto, anche per un certo snobismo.
Il capodanno chez nous è molto relativo: si consultano tutti gli orologi, se almeno due sono sincronizzati si considerano latori dell’ora esatta, viceversa si fa una media approssimativa e si presta attenzione al momento di fuochi e petardi più intenso. Allora ci si dice che probabilmente è mezzanotte e che siamo suppergiù nel nuovo anno.
Come dicevo, anche nelle case più virtuose non si è esenti dall’accensione coatta e la mia numerosa, chiassosa famiglia ha inesorabilmente affrontato il cenone con tanto appetito e l’occhio fatalmente attratto dal focolare tecnologico.
Nell’allegra confusione di bambini che giocavano, dormivano o incubavano malattie esantematiche, con cani e gatti che speravano in qualche inopinata distrazione dei cuochi al barbecue, cibi di ogni sorta per soddisfare i palati di intolleranti a questo o a quello, dei portatori di malattie metaboliche, degli animalisti e dei seguaci di quattro religioni più gli agnostici, correva immancabile lo sguardo al presentatore più abbronzato d’Italia.
Crocchi di cugine perfidamente sparlavano di presenti e assenti, confezionando cappotti su misura per consanguinei e, come diceva nostra nonna, “carne estranea”, mentre involontariamente canticchiavano la canzone in onda.
La sera di capodanno ho visto cose da far accapponare la pelle al più impavido spettatore di horror: personaggi già mediocri all’epoca del loro massimo splendore, ormai riconoscibili solo grazie al nome in sovrimpressione. Antichi (è il caso di dirlo) idoli, che in un colpo hanno infranto i ricordi romantici della mia adolescenza. Un comico che mi ha sempre messo tristezza che non aveva preparato le battute e tentava di improvvisare con freddure deprimenti e volgari che neanche il più grezzone di via Greve. Ho visto Umberto Tozzi “califanizzato” che intonava ancora e ancora le solite ripetitive e monotone “Gloria” e “Ti amo”, ravvisato solo dalla voce, perché, a guardarlo, davvero ci si sarebbe aspettati di sentire “Fijo mio vie’ qua, sta’ a sentì a papà…”; Tony Hadley, voce degli Spandau Ballet, che intonava ancora “Gold” e “Through the barricades”, con una facies da bevitore professionista, gonfio e rubizzo, e, per togliere ogni dubbio, sbevazzando davanti alle telecamere tra un’esibizione e l’altra. Imitazioni penose di cantanti altrettanto penosi anche nella versione originale. Ex artisti redivivi, comprimari della canzonetta italiana e non, inframmezzati qua e là dall’estemporanea presenza del fenomeno planetario del momento, quella Violetta (ma non Valérie) che imperversa tra le ragazzine di entrambi gli emisferi. Colei che insieme alla “sorella segreta” (stesse pose intense, stesse espressioni intellettuali) Belen Rodriguez, in barba a Borges o a Carlos Gardel, tiene alto nel mondo il nome della mia seconda patria. Il tutto contornato da gente che ballava e rideva e beveva ai margini del palco. Ah, dimenticavo: dopo la mezzanotte il “comico” di punta ha esibito una mise da cappuccetto rosso o qualcosa di simile, ma ho distolto lo sguardo per non iniziare troppo male il nuovo anno ed ho fatto da scudo alle mie creature che sono ancora piccole e vorrei preservarle ancora per un po’ dall’idiozia del mondo.
Affronto il 2014 con questa consapevolezza: il televisore può attendere.